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Questa è la sezione dedicata ai videogames per tutti gli appassionati dei videogiochi…

Il videogioco è un gioco il cui funzionamento è gestito automaticamente da un dispositivo elettronico che utilizza un’interfaccia uomo-macchina e uno schermo come sistema di output. È detto anche, con anglismo, videogame, sebbene il termine inglese corretto sia video game. Colui che utilizza un videogioco viene chiamato “videogiocatore” e si serve di una o più periferiche di input quali il joystick, la tastiera, il joypad ecc.

Nato già a partire dagli anni cinquanta negli ambienti di ricerca scientifica e nelle facoltà universitarie americane, ha avuto il suo sviluppo a partire dalla seconda metà degli anni settanta.

Storia

Nel 1952 nei laboratori dell’Università di Cambridge A.S. Douglas, come esempio per la sua tesi di dottorato, realizzò OXO, la trasposizione del gioco Tris per computer. Questo non viene usualmente considerato il primo videogioco per computer, dato che non venne sviluppato per intrattenere gli utenti ma per completare la tesi di Douglas.

Nel 1958, il fisico Willy Higinbotham del Brookhaven National Laboratory, notando lo scarso interesse che avevano gli studenti per la materia, realizzò un gioco (Tennis for Two) che aveva il compito di simulare le leggi fisiche che si potevano riscontrare in un vero incontro di tennis: il mezzo utilizzato era un oscilloscopio. Questo viene ricordato come un esperimento universitario più che come un gioco.

Nel 1961, sei giovani scienziati del MIT (Massachusetts Institute of Technology) riescono a dare movimento a puntini luminosi sullo schermo di un PDP-1: nasceva Spacewar!, il primo videogioco che la storia ricordi. Ma il grande sviluppo dei videogiochi si avrà solamente a partire dalla seconda metà degli anni settanta.

I primi videogiochi apparvero negli anni ’70 ed erano limitati a console con video in bianco e nero allestite nei locali pubblici. I giochi avevano una grafica essenziale (nella memoria resta il classico Pong).

Il gioco sviluppato da Higinbotham era una simulazione di tennis in cui c’era una linea verticale sullo schermo a rappresentare la rete vista dall’alto e un puntino sullo schermo per la pallina. Non c’erano segnalini per le racchette ed agendo sulla manopola di controllo un solo giocatore poteva far “rimbalzare” la palla da un lato all’altro dello schermo: se non si ruotava la manopola prima della fine dello schermo la pallina continuava la sua corsa ed il gioco ricominciava senza assegnare alcun punteggio con una nuova pallina. In effetti era una dimostrazione su come si potesse interagire con un computer più che un gioco o un videogioco. Il gioco funzionava grazie ad una serie di computer analogici Donner (enormi scatoloni da 50.000 dollari) a cui Higinbotham collegò dei relay che tramite uno oscilloscopio DuMont Model 804 erano in grado di generare e gestire punti mobili sullo schermo (la pallina).

Il nome di Higinbotham sarebbe oggi del tutto obliato oppure certamente non accostato ai videogiochi se non fosse per il fatto che la Nintendo lo pose sotto la luce dei riflettori in tribunale alla fine del 1982 chiamando Higinbhotam come testimone in una causa (che Nintendo of Japan perse) intentata nel tentativo di dimostrare che i videogiochi fossero stati inventati prima del deposito dei brevetti detenuti, già a far data dal 1966, dalla Sanders and Associates e per non pagare i diritti a quest’ultima.

Il progetto di Douglas, così come quello di Higinbotham, era sì un gioco ma non certo un videogioco. Si trattava più un esperimento scientifico che una invenzione fruibile dalla gente comune: l’EDSAC o il Donner erano armadi che occupavano interamente una stanza e assorbivano una quantità enorme, industriale di corrente elettrica, oltre ad avere un costo decisamente proibitivo per qualunque famiglia dell’epoca (circa 60.000 dollari per l’EDSAC e 50.000 dollari per un singolo computer Donner).

Lo Space War di Russel invece era un videogioco vero e proprio basato sulla visualizzazione vettoriale (fu il primo tentativo di simulazione dinamica che la storia ricordi). Ma per la complessità del progetto e gli elevati costi di sviluppo sul PDP-1, nonché per la difficoltà poi di adattare tale videogioco su computer dai costi più “abbordabili” si dovette attendere la fine del 1973 quando Space War raggiunse il grande pubblico come gioco da sala (coin-op). Tale gioco ebbe scarsissimo successo e le sue vendite non coprirono neppure un terzo dei costi di produzione.

Il primo uomo che invece concepì l’idea di videogiocare, nel senso che oggi noi conosciamo, con i normali schermi TV da salotto, fu Ralph Baer. Il concetto di un giocatore, un gioco, un televisore, ed una scatola ad essa collegata in cui inserire i videogiochi è suo.

Negli anni sessanta Ralph Baer era uno dei primi ingegneri televisivi al mondo e lavorava alla Sanders and Associates (una società che sviluppava sistemi radar aerei e sottomarini). Nel 1966, durante un viaggio di lavoro, annotò su un block notes alcuni schizzi e disegni tentando di schematizzare alcuni pensieri sul modo in cui si potesse interagire (giocando) con un normale televisore da casa. Tali appunti convinsero la Sanders a sviluppare il progetto e a depositare i brevetti di quella idea già nel 1966, inoltre la società incoraggiò Baer a continuarne lo sviluppo, mettendogli a disposizione una stanza debitamente attrezzata su indicazione delle stesso ingegnere. Dopo pochi mesi Baer aveva un puntino luminoso che si poteva muovere a piacimento sullo schermo di un normale televisore. Il generatore di allineamento Heathkit IG-62, da egli stesso realizzato per testare i televisori, rendeva ora possibile muovere il puntino bianco su schermo nero.
Benché all’inizio degli anni ottanta Atari rese famosi nel mondo i puntini neri su schermo bianco, la tecnologia inventata da Baer fu la prima che venne utilizzata agli inizi degli anni ’70 per la creazione della prima console per videogiochi nella storia: il Magnavox Odyssey.

Il prototipo del Magnavox Odyssey (chiamato in Sanders Brown Box oppure solo Odyssey) era già pronto nel 1970 e ne venne iniziata la commercializzazione in serie nel Natale del 1972 con un gioco di ping-pong.

Si trattava in buona sostanza di una pallina (un punto bianco su schermo nero) che veniva ribattuta orizzontalmente sullo schermo della TV da due racchette (due bastoncini bianchi su schermo nero), controllabili dai giocatori (massimo 2) con due controller (attualmente li chiameremmo joypad) con rotelle, che consentivano di muovere le racchette verticalmente. Nell’anno di lancio l’Odyssey vendette oltre 165.000 unità, e grazie anche ad una estesa campagna pubblicitaria, l’unica e sola console casalinga per videogiochi, vendette nel secondo anno (siamo alla fine del 1973) ulteriori 200.000 scatole.

Nel 1972 Nolan Bushnell, un giovane ingegnere che lavorava in Ampex (una società che progettava circuiti integrati e nastri magnetici per la videoregistrazione), lasciò il suo impiego e fondò Atari.

Bushnell con la sua nuova società si prefiggeva in pochi anni di sostituire i flipper dei bar con videogiochi a gettoni (coin-op). Nei primi mesi di produzione (siamo agli inizi del 1973) Atari vendette circa 2000 unità del coin-op “Pong”. Un gioco molto simile al ping-pong di Baer per l’Odissey. Sta di fatto che il coin-op Atari, nonostante sia stato commercializzato e sia apparso al pubblico dopo il lancio della console Odyssey, è passato alla storia come il primo videogioco.
Pong di Atari era un gioco destinato ai luoghi pubblici e non alle quattro mura domestiche, così anche chi non conosceva l’esistenza dei videogiochi ebbe il primo contatto con essi grazie a Pong.

Per tale ragione Atari entrò nell’immaginario collettivo come la casa che aveva generato quel nuovo mondo del divertimento elettronico, anche se fu solo nel 1976 che Atari (grazie anche alla collaborazione di Activision) cominciò a commercializzare la sua versione della console casalinga, che, per ragioni di una diversa e migliore capacità pubblicitaria di Atari (più che per una effettiva qualità superiore) soppiantò immediatamente l’Odyssey della Sanders/Magnavox.

Nuovo fenomeno culturale

Divenuto ormai un fenomeno culturale di massa, il videogioco è un medium unico, nonché un’inedita forma d’arte (la prima forma d’arte interattiva): infatti, come suggerisce James Paul Gee, i videogiochi sono ben diversi dagli altri tipi di media (film, letteratura, teatro…), pur riprendendone i vari linguaggi. Essi hanno diverse caratteristiche che li rendono unici e operano in modo diverso dagli altri, ad esempio il linguaggio del gameplay è unico tra i media narrativi tradizionali e inoltre è stato autorevolmente affermato che è l’interattività ciò che ha distinto i videogiochi dalle altre forme d’intrattenimento mediale di massa. Proprio tale caratteristica permette al videogioco di esercitare un potenziale di immersività e attrazione che altri media non hanno.

Il videogioco è un medium relativamente recente (soprattutto se comparato con la storia degli altri media), e solamente negli ultimi decenni ha conosciuto un rapido sviluppo, che gli ha permesso di crescere e di superare in maniera prepotente, più degli altri media, le critiche mosse contro di esso a torto o a ragione. Tutto ciò è stato possibile grazie al fatto che il videogioco, più di ogni altro (anche più di un film), è legato fortemente al progresso tecnologico. Quest’ultima caratteristica dona al videogioco un potenziale enorme e infatti come ha affermato il sociologo Alberto Abruzzese “i videogiochi sono la nostra più avanzata frontiera e il nostro più affascinante futuro” […]. L’influenza di questo medium – anche come nuovo fenomeno culturale di massa – viene da molti associata a quella del cinema degli albori o della televisione al momento della sua massima espansione e trasformazione in mezzo di comunicazione di massa vero e proprio. Anzi, il videogioco rischia ora, o quanto meno rischierebbe, di surclassare lo stesso cinematografico, se è vero come è vero che già è stato infranto un ipotetico quanto significativo break even point: statistiche alla mano, le vendite di videogiochi hanno superato, almeno negli Stati Uniti, quelle di biglietti delle sale cinematografiche. E infatti tale superamento è già in qualche modo avvenuto in quanto un videogioco come Halo 3 o il più recente Call of Duty: Black Ops hanno guadagnato rispettivamente 170 milioni di dollari in 24 ore (fu considerato il più grande incasso per un prodotto d’intrattenimento) e l’altro 650 milioni di dollari in soli cinque giorni. Tutto ciò fa capire quanto il mercato videoludico sia divenuto importante e possiede un enorme potenziale.

Ma con il cinema, il mondo dei videogiochi sembra aver stretto un (definitivo?) patto d’acciaio: i plot di molti film prodotti oggi sono dichiaratamente mutuati da videogiochi, così come molti videogiochi vengono in tempi assai rapidi trasformati in film, più o meno di successo e dalle qualità artistiche a volte discutibili.

Il riconoscimento dell’importanza culturale dei videogiochi si sta manifestando con l’ingresso della materia nelle Università e con il proliferare di pubblicazioni scientifiche, anche in italiano, sull’argomento.

Età dei videogiocatori

La fascia anagrafica più cospicua di coloro che praticano il videogioco è tra i 16 e i 29 anni, sebbene in alcuni paesi, come il Regno Unito, l’età media sia più alta, arrivando comunque ad un massimo di 49 anni; in Italia l’età media è di 28 anni.

Oggi nel mondo i videogiochi sono praticati da almeno 130-145 milioni di persone di tutte le età. In Italia nel 2008 il numero dei possessori di una console era di 8 milioni.

Internet e “intelligenza connettiva”

La massiccia diffusione di Internet negli anni novanta ha favorito una diffusione altrettanto massiccia dei videogiochi. Sul web è possibile infatti giocare allo stesso videogioco anche in gruppi composti da più persone situate in diverse postazioni sparse per il globo.

Questa possibilità di dare vita ad una intelligenza connettiva (data appunto dalla interconnessione di più persone fra loro comunicanti), sembra destinata ad essere presa in considerazione anche dal mondo della scuola. Si starebbe cercando, in altre parole, di dare al videogioco una funzione pedagogica, ovviamente senza destrutturarlo troppo e pur tuttavia sostituendone la componente competitiva con una meramente collaborativa. Un esempio di questo tentativo è rappresentato da Stopdisasters, un videogioco on line lanciato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite con l’intento di sensibilizzare i più piccoli sugli accorgimenti per costruire città e villaggi più sicuri dal rischio di calamità e disastri ambientali.

Generi

Come qualsiasi gioco, il videogioco può rappresentare oggetti astratti o riprodurre simbolicamente determinati contesti culturali, astraendoli dal loro ambito ed applicandoli a contesti e situazioni che possono andare dalla simulazione più fedele fino alla parodia.

Dalla nascita, i videogiochi si sono costantemente evoluti formando man mano dei generi completamente diversi tra loro, con meccaniche di gioco differenti e differenti abilità richieste al giocatore. Oltre ad una naturale crescita tecnica dei giochi, l’uscita di un titolo innovativo può essere talmente diverso dal punto di vista concettuale da creare un tipo di videogioco a sé.

I principali gruppi nei quali si possono dividere i videogiochi sono due: simulativo o arcade. Un gioco simulativo è un gioco basato sulla simulazione delle regole del mondo reale, chi opta per programmare un gioco orientato su questo genere sa che il giocatore vuole investire anche ore del proprio tempo giocando a qualcosa di inedito e molto difficile. Un gioco di guida con la reale rappresentazione della fisica, oppure un gioco di guerra dove con un solo colpo la partita finisce, sono ottimi esempi. Il gioco arcade invece ne è l’esatto opposto. Chi sceglie un gioco arcade non ha voglia di cimentarsi nell’apprendimento delle meccaniche di un gioco troppo complicato, ed il suo unico desiderio è avviare il gioco e divertirsi all’istante, evitando se possibile di leggere il manuale.

 

Conseguenze psicologiche

Il videogioco viene spesso colpevolizzato attraverso i mass media, specie quando si verificano efferati episodi di cronaca nera. Alcuni ritengono infatti che la ripetuta simulazione di sparatorie o atti di violenza, presenti in alcuni videogiochi, possa in qualche modo avere influenzato precedentemente l’autore o gli autori di tali efferate gesta; altre fonti sostengono invece che i bambini siano normalmente capaci di distinguere finzione e realtà e che questi singoli episodi siano da ricondurre a sintomatologie pre-esistenti di tipo psicologico o di altra natura.

Una ricerca dell’università dello Iowa, pubblicata sul Journal of Experimental Social Psycology, è giunta alla conclusione che chi gioca con videogiochi violenti diventa meno sensibile alla violenza presente nel mondo reale. La “desensibilizzazione” viene spiegata come “una riduzione delle emozioni in reazione ad atti violenti reali”. Utilizzare i giochi più violenti porterebbe non solo ad essere più violenti ma più aggressivi, intolleranti e meno altruisti.

Nella ricerca sono stati scelti 257 studenti di College (124 uomini e 133 donne) ai quali è stato chiesto di giocare a videogiochi scelti casualmente: alcuni violenti (CarmageddonDuke Nukem 3D,Mortal Kombat e Future Cop) e altri non violenti (Glider Pro3D Pinball3D Munch Man e Tetra Madness). Ai soggetti per tutta la durata dell’esperimento sono stati controllati i battiti cardiaci e la reattività epidermica. Dopo la “prova” ai volontari è stato chiesto di sedersi a guardare un video di 10 minuti contenente scene di violenza reali.

I ricercatori hanno evidenziato che coloro che avevano giocato con videogiochi violenti avevano avuto una reazione fisiologica analoga rispetto a quelli che avevano interagito con giochi non violenti durante la fase di gioco, ma presentavano una reazione assai minore alle immagini di violenza reale mostrate loro successivamente. Raccolti tutti i dati dell’esperimento, lo scenario che gli psicologi propongono è allarmante: sarebbero sufficienti 20 minuti di videogiochi violenti per diventare meno sensibili alle brutalità del mondo reale. Ma gli psicologi si sono spinti oltre nelle loro conclusioni, definendo l’intera società del divertimento multimediale come una «macchina per la desensibilizzazione sistematica dell’individuo». Bisogna altresì ricordare che la ricerca potrebbe essere interpretata anche come una desensibilizzazione rispetto ad immagini fittizie di elementi reali: essere più tolleranti verso un filmato o ad una fotografia che mostrano scene violente non è la stessa cosa (sia a livello conscio che inconscio) del trovarvicisi direttamente davanti come spettatori (il lettore può facilmente immaginare come reagirebbe se assistesse ad un omicidio commesso proprio davanti ai suoi occhi e come reagirebbe invece se vedesse le immagini di un omicidio trasmesse ad esempio in un notiziario, difficilmente nel secondo caso si rimarrebbe turbati quanto nel primo). Inoltre la stessa ricerca è una delle innumerevoli che sono state fatte sul mondo e sugli effetti dei videogiochi, le quali hanno portato ai risultati più disparati e contrastanti. Il dibattito è molto animato e ricco di interessamenti da parte di vari studiosi, e sta proseguendo avanti con studi sempre più approfonditi.

Stimolazione del cervello

A parere di molti sociologi e psicologi, il videogioco favorisce una stimolazione del cervello dei giocatori, inducendolo ad agire in maniera differente rispetto all’usuale grazie alla immediatezza del messaggio visivo fornito dalle immagini. Steven Johnson, nel suo libro “Tutto quello che fa male ti fa bene” (Mondadori, 2006) cita recenti studi di neurologia su come viene stimolata l’attivazione dei circuiti dopaminergici durante l’interazione con un gioco elettronico. Citando quello che James Paul Gee chiama “ciclo indaga, ipotizza, reindaga, verifica” Johnson paragona l’attività conoscitiva che un giocatore svolge all’interno di un videogioco al metodo scientifico. Questo aspetto, tuttavia, viene talvolta considerato un ostacolo per un giocatore in età infantile o adolescenziale e quindi in fase di apprendimento: la comunicazione che proviene da un insegnante può risultare non sempre recepibile da un giovane abituato a messaggi prettamente visivi.

Secondo altri studiosi della materia, il videogioco sta contribuendo perciò a introdurre in questo inizio di III millennio – a dispetto del massiccio uso delle immagini che fa – un nuovo tipo di cultura che contrasta le precedenti, ossia quella orale e quella scritta. Questo dato di fatto si tramuta in timore davanti ad un altro genere di considerazione: se cioè l’effetto di questo intrattenimento si limiti semplicemente a rivedere (ridisegnare?) gli stilemi culturali esistenti oppure se possa portare – interessando così una sorta di roboetica – alla creazione di un modello esistenziale di uomo-gioco.

Industria dei videogiochi

Dagli anni novanta in poi l’industria dei videogiochi ha acquisito sempre più importanza, la produzione di videogiochi moderni richiede investimenti per decine di milioni di euro ma può determinare incassi per centinaia di milioni di euro. La sola GameStop, nel 2007, ha fatturato 5,56 miliardi di dollari. Nello stesso anno, per la prima volta nella storia, l’industria dei videogiochi ha superato come volume d’affari l’industria musicale.

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